Parlare di obesità significa, troppo spesso, parlare solo di corpi. Ma le parole che scegliamo contano: possono curare o ferire, aprire spazi di consapevolezza o rinforzare pregiudizi.
La Dr.ssa Federica Ferrajoli, psicologa, lo dice chiaramente: “Il linguaggio non è mai neutro. Chiamare un corpo ‘problema’ o pensare che la sofferenza sia inscritta nella sua forma contribuisce a rafforzare lo stigma e la diet culture.”
Da questa riflessione nasce un invito a cambiare prospettiva: smettere di guardare al peso come a un difetto da correggere, e iniziare a considerare la salute come un insieme di dimensioni fisiche, psicologiche e sociali.
Seguendo l’approccio Health at Every Size (HAES), la dottoressa ci accompagna in un percorso di consapevolezza sul significato stesso della parola “obesità” — un termine che, spiega, “porta con sé un forte peso stigmatizzante e spesso cancella l’individualità della persona.”
In questa intervista propone un approccio diverso: inclusivo, empatico e libero dai pregiudizi. Perché, come ricorda, “non è il corpo grande a essere il problema, ma la società che lo giudica tale.”
Abbiamo chiesto alla dottoressa di aiutarci a decostruire alcune delle domande più comuni sull’obesità e a offrire strategie psicologiche per vivere con maggiore benessere, indipendentemente dalla taglia.
Qual è l’impatto psicologico più comune che l’obesità può avere sulla vita quotidiana delle persone?
Alla luce di quanto detto nell’introduzione, forse la domanda potrebbe essere riformulata così: “Qual è l’impatto psicologico dello stigma legato al peso sulla vita quotidiana delle persone?”
È una sottile differenza, che però ci protegge dal rischio di stigmatizzare un corpo grasso partendo dal presupposto che la sofferenza psicologica sia insita nel corpo grande, come se fosse intrinsecamente un problema del corpo: “se sei molto grasso, stai male psicologicamente”. Lo stigma del peso può avere effetti molto profondi sulla vita quotidiana.
Le persone con corpi non conformi agli ideali di magrezza vivono spesso situazioni di discriminazione: battute offensive, sguardi giudicanti, esclusione da spazi pensati solo per corpi “standard”. Questo porta a sentimenti di vergogna, ansia sociale e rinuncia a esperienze piacevoli o importanti. L’impatto psicologico più comune non è dunque “avere un corpo grande”, ma doverlo vivere in una società che lo discrimina.
Quanto pesa lo stigma sociale e culturale sull’autostima e sulle relazioni di chi convive con l’obesità?
L’espressione “convivere con l’obesità” rischia di far apparire ogni corpo grande come portatore di una malattia cronica — ma non è necessariamente così. Ciò che rientra nella definizione di obesità secondo l’indice di massa corporea (BMI) può rappresentare, oppure no, una condizione clinica: il BMI indica un dato numerico, non racconta la salute complessiva della persona.
Per questo, forse, la domanda andrebbe spostata: più che chiedersi come lo stigma influisca su “chi convive con l’obesità”, può essere più accurato domandarsi in che modo lo stigma sociale e culturale legato al peso incida sull’autostima e sulle relazioni di chi vive in corpi non conformi agli standard di magrezza.
Lo stigma legato al peso ha un impatto diretto sull’autostima. Crescere in una cultura che associa la magrezza a valore, successo e desiderabilità significa interiorizzare presto l’idea di “valere meno” se non si rientra in quegli standard.
Questo condiziona le relazioni affettive e sociali: molte persone temono di non essere desiderate, di essere rifiutate o ridicolizzate. Lo stigma può tradursi in discriminazioni concrete, ma anche in auto-esclusione. Tutto ciò erode la possibilità di costruire legami sicuri e autentici.
In che modo le emozioni, come ansia o stress, possono influenzare il rapporto con il cibo e favorire comportamenti disfunzionali?
Si dà per scontato che chi ha un corpo grande abbia un rapporto “disfunzionale” con il cibo, e si patologizzano comportamenti che spesso hanno invece una funzione adattiva.
Il cibo non è solo nutrimento biologico, ma anche regolazione emotiva e socialità. Ansia e stress possono portare alcune persone a cercare nel cibo una forma di sollievo. Non è di per sé “sbagliato”: è un modo immediato di gestire emozioni difficili. E tutto ciò può riguardare qualsiasi persona, a prescindere dal suo indice di massa corporea.
Può diventare però molto faticoso se diventa l’unico strumento a disposizione, soprattutto quando è accompagnato da senso di colpa o cicli di restrizione–abbuffata tipici della diet culture. Il punto, quindi, non è colpevolizzare chi usa il cibo in questo modo, ma ampliare le strategie di coping: la mindfulness, la scrittura, il movimento consapevole, o il sostegno psicoterapeutico.
Quali strategie psicologiche possono aiutare ad affrontare un percorso di dimagrimento in maniera più sostenibile e serena?
Questa domanda presuppone che chi ha un corpo grande debba necessariamente dimagrire. È lo sguardo tipico della diet culture, che equipara salute e valore personale alla magrezza. Sarebbe più utile domandarsi quali strategie psicologiche possono aiutare a costruire un rapporto più sereno con il proprio corpo e con il cibo, promuovendo benessere a prescindere dal peso.
Le strategie più efficaci non si fondano sull’odio verso il corpo, ma sull’autocompassione e sull’accettazione. Coltivare l’autocompassione, trattandosi con la stessa gentilezza che si riserverebbe a una persona cara.
Praticare l’accettazione corporea, riconoscendo il diritto a vivere bene in ogni corpo, senza rimandare la propria felicità a un futuro dimagrimento. Riconnettersi ai segnali interni, attraverso pratiche di alimentazione intuitiva che privilegiano fame, sazietà e soddisfazione.
Creare ambienti di supporto, cercando comunità e professionistæ che non riducano la persona al peso.
In quest’ottica, la salute non ha a che fare con l’obiettivo di “perdere chili”, ma di vivere con energia, benessere e libertà, indipendentemente dalla taglia.
La dr.ssa Ferrajoli conclude con queste parole
Analizzare le domande poste ci mostra chiaramente quanto lo stigma possa infiltrarsi nel linguaggio. Ogni volta che parliamo di “obesità” come problema da risolvere o di “dimagrimento” come obiettivo inevitabile, rischiamo di rinforzare la narrativa della diet culture.
La psicologia, in un’ottica inclusiva, può accompagnare le persone a riconoscere lo stigma, a liberarsi dal senso di colpa, a costruire spazi, tempi e modi più compassionevoli per sé. Non si tratta di trasformare i corpi, ma di trasformare lo sguardo con cui li guardiamo.