Un recente studio ha rimesso al centro dell’attenzione l’arginina, un amminoacido molto comune negli integratori, suggerendo che possa interferire con alcuni dei processi chiave legati all’Alzheimer.
Gli esperimenti mostrano che questo composto è in grado di limitare la formazione delle placche amiloidi – ovvero quelle strutture proteiche che, progressivamente, si accumulano nel cervello e rappresentano uno dei segni distintivi della malattia.
Scopriamo di più.
Cosa hanno osservato i ricercatori
Come prima cosa, l’indagine è partita dall’analisi della capacità dell’arginina di influenzare la formazione della proteina beta-amiloide (Aβ) – elemento che rappresenta gran parte delle placche osservate nel cervello dei pazienti affetti da Alzheimer.
La seconda parte della ricerca ha coinvolto due modelli di Alzheimer:
- Drosophila melanogaster (moscerino della frutta) geneticamente modificato per produrre Aβ42 mutata;
- topi knock-in App NL–GF, portatori di tre mutazioni caratteristiche della malattia.
In entrambi i modelli, la somministrazione orale di arginina ha determinato un calo significativo delle placche e una riduzione dei segnali di neurotossicità.
Nei topi, in particolare, sono stati osservati:
- un minor numero di placche amiloidi nel cervello;
- una riduzione delle forme insolubili di Aβ42;
- performance comportamentali migliori;
- un abbassamento dell’espressione delle citochine pro-infiammatorie.
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Secondo il team di ricerca, il fatto che si tratti di una molecola sicura e a basso costo rende l’arginina un candidato interessante da esplorare come opzione terapeutica.
Nonostante gli esiti favorevoli, gli autori ribadiscono alcuni punti imprescindibili:
- qualsiasi possibile utilizzo nell’uomo richiederà trial clinici controllati, necessari per valutare sicurezza, dosaggio ottimale ed efficacia reale;
- serviranno ulteriori dati preclinici per definire come l’arginina venga assorbita, distribuita e metabolizzata in condizioni terapeutiche;
- i dosaggi utilizzati nei modelli animali non corrispondono a quelli degli integratori in commercio.
Una argomento già battuto, ma con cautela
Il team ha osservato che tale amminoacido tende a rallentare l’aggregazione della beta-amiloide e sembra ridurne parte della tossicità.
Il lavoro nasce dal presupposto che, negli ultimi anni, diversi gruppi di ricerca avevano segnalato una possibile relazione tra arginina e metabolismo dell’amiloide: in alcuni modelli murini, livelli insufficienti dell’amminoacido sono stati associati a un aumento delle placche, ipotesi che ha portato a pensare che una sua carenza potesse contribuire ai meccanismi patologici dell’Alzheimer.
Lo studio si inserisce, quindi, in una linea di indagine già esistente, arricchendola con nuovi dati sperimentali che vanno dall’inibizione dell’aggregazione fino agli effetti sui processi infiammatori.
Uno degli aspetti più interessanti è il profilo di sicurezza dell’arginina: si tratta di una sostanza utilizzata da tempo, con costi bassi e buona tollerabilità – caratteristiche che rendono plausibile l’idea di un suo eventuale riposizionamento terapeutico.
Questo, però, non significa che l’efficacia reale sull’uomo sia scontata: la differenza con un segnale promettente negli animali è enorme e, al momento, non esiste alcuna prova che l’arginina, assunta come integratore, possa prevenire o rallentare l’Alzheimer.
Per questo, gli stessi autori invitano alla massima cautela: le condizioni sperimentali, compresi i dosaggi, non hanno nulla a che vedere con l’uso comune degli integratori, e i risultati, benché consistenti, riguardano moscerini e modelli murini. Per capire se un beneficio simile possa esistere anche negli esseri umani serviranno studi clinici dedicati, progettati con rigore e controlli adeguati.
Fonti:
Science Direct – Oral administration of arginine suppresses Aβ pathology in animal models of Alzheimer's disease