Secondo un recente studio pubblicato su Nature, il declino cognitivo associato all’Alzheimer potrebbe essere rallentato anche solo con 3.000 passi al giorno, forse grazie agli effetti dell’esercizio regolare sulla salute del cervello.
Scopriamo di più.
Lo studio
I ricercatori hanno analizzato i dati di 296 adulti cognitivamente sani, di età compresa tra 50 e 90 anni, seguiti per un periodo fino a 14 anni nell’ambito dell’Harvard Aging Brain Study (HABS).
Tutti i partecipanti hanno indossato un contapassi per una settimana, così da misurare con precisione il loro livello di attività fisica, mentre attraverso tecniche avanzate di imaging PET sono stati monitorati i livelli di due proteine chiave implicate nell’Alzheimer:
- beta-amiloide (Aβ);
- tau.
Dallo studio è, dunque, emerso che non serve arrivare a 10.000 passi al giorno per ottenere benefici cognitivi, bensì i miglioramenti iniziano già con 3.000 passi quotidiani – e diventano ancora più evidenti tra i 5.000 e i 7.500 passi.
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In questa fascia, l’accumulo della proteina tau, considerata uno dei principali fattori del declino cognitivo, rallenta in modo significativo, mentre il cervello mostra una maggiore resistenza al deterioramento delle funzioni mentali.
Chi cammina regolarmente ha mostrato un rallentamento dell’84% del declino cognitivo (misurato tramite il punteggio PACC5) e una riduzione del 40% del peggioramento funzionale (valutato con la scala CDR-SOB).
Inoltre, è stato osservato un accumulo molto più lento della proteina tau nel lobo temporale inferiore, un’area cerebrale cruciale per la memoria e l’elaborazione delle informazioni.
I meccanismi biologici
Gli scienziati non hanno ancora definito con certezza come l’attività fisica riesca a esercitare questo effetto protettivo, ma le ipotesi sono diverse: camminare regolarmente può migliorare il flusso sanguigno cerebrale, ridurre i livelli di infiammazione sistemica e aumentare la produzione di BDNF (fattore neurotrofico cerebrale), una proteina che favorisce la sopravvivenza e la rigenerazione dei neuroni.
Questo insieme di effetti potrebbe contribuire a limitare la formazione delle proteine tossiche e a mantenere attive le connessioni neuronali. In altre parole, muoversi ogni giorno aiuta letteralmente il cervello a “rimanere giovane”.
Secondo gli autori dello studio, un obiettivo di 5.000 passi al giorno rappresenta un traguardo realistico e alla portata di tutti, soprattutto delle persone anziane o sedentarie.
La buona notizia è che anche un piccolo aumento di movimento può fare la differenza. Camminare tra 3.000 e 5.000 passi al giorno può ritardare il declino cognitivo di circa tre anni, mentre chi arriva a 5.000/7.500 passi può posticiparlo fino a sette anni. Una differenza enorme, se si considera che l’Alzheimer è una malattia ancora priva di una cura definitiva.
Lo studio, dunque, conferma quanto l’esercizio fisico, anche leggero, sia uno strumento prezioso per la salute cerebrale: non solo non ha effetti collaterali, ma può essere praticato gratuitamente e adattato al ritmo di ciascuno.
Gli autori dello studio invitano, però, alla cautela: la ricerca è osservazionale e non dimostra un rapporto di causa-effetto certo. È possibile, ad esempio, che persone già con un lieve declino cognitivo siano meno motivate o in grado di mantenere un’attività regolare. Tuttavia, la durata eccezionale del follow-up, le misurazioni oggettive e la dimensione del campione rendono i risultati estremamente solidi.
Per confermare questi dati serviranno nuovi studi clinici in cui i partecipanti vengano assegnati casualmente a diversi livelli di attività fisica, così da separare l’effetto diretto dell’esercizio da altri fattori dello stile di vita.
Dunque, muoversi ogni giorno, anche solo per 30 minuti, può aiutare a mantenere il cervello giovane e rallentare la perdita di memoria. Non servono grandi sforzi: bastano piccoli passi, ma costanti, per proteggere la mente nel tempo – ricordandosi sempre che il tempo dedicato al movimento conta più del numero di passi compiuti.
Fonti:
Nature Medicine – Physical activity as a modifiable risk factor in preclinical Alzheimer’s disease