Nei momenti di stanchezza, molti sentono un’urgenza automatica: partire e andare lontano, per staccare la spina. Ma quanto di questo modo di viaggiare risponde davvero a un bisogno di riposo e quanto è guidato da un modello collettivo, spesso più stancante che rigenerante?
Sempre più persone tornano dalle vacanze affaticate: hanno “fatto tutto”, ma non hanno sentito niente. Oppure si sono ritrovate in compagnia di ospiti inattesi: ansia, frustrazione, un senso di vuoto difficile da nominare. Hanno macinato chilometri e spuntato checklist, ma non si sono mai davvero fermate.
Cerchiamo di approfondire uno sguardo psicologico sul viaggio, esplorando due approcci alternativi: “slow travel” e “staycation”. Non si tratta solo di organizzare diversamente le ferie, ma di vivere una diversa qualità della presenza. Partiremo da tre passaggi fondamentali: trattenere, riconoscere il cambiamento e lasciare andare.
Trattenere vecchie idee di viaggio: il bisogno di “altrove”
Negli ultimi decenni si è consolidato un immaginario molto preciso della vacanza ideale: lontana, intensa, fotogenica. I social hanno rafforzato questa narrazione fatta di luoghi spettacolari e tramonti perfetti.
Il viaggio, in questo contesto, assume la forma di evasione più che di esplorazione: una risposta automatica a un tempo quotidiano insoddisfacente. “Più vado lontano, più riuscirò a ricaricarmi”.
Ma questa logica ha un prezzo. Ci spinge a vivere il viaggio come una maratona: organizzata, piena, performativa. Così si rischia di tornare con una memoria piena di immagini, ma un corpo ancora stanco. Con la sensazione sottile — e spesso non detta — di non essersi davvero riposati, di non aver ritrovato quel contatto profondo con sé stessi che si cercava.
Non è tanto il viaggio ad aver fallito, quanto l’aspettativa che lo ha guidato. Quando “staccare” diventa sinonimo di fare, incastrare, documentare, l’ascolto si perde. E si torna con la valigia piena e il cuore vuoto.
Il “problema” non è voler partire, ma pensare che solo l’altrove possa guarirci.
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Guardare davvero è diverso dal vedere: è rallentare, restare, accorgersi. È un atto controcorrente in un tempo che ci spinge a correre anche quando vorremmo solo fermarci.
Ed è proprio in questo “guardare” che lo slow travel e la staycation trovano senso. Non sono viaggi di serie B o alternative economiche: sono esperienze intenzionali. Occasioni per fare spazio, togliere il superfluo, restare. Per esplorare il vicino come fosse nuovo, e ricordare che ‘lontano’ e ‘profondo’ non sono sinonimi.
Riconoscere il cambiamento: il desiderio di lentezza
Sta emergendo una nuova sensibilità. Sempre più persone sentono che il bisogno non è di “altrove”, ma di rallentare.
E qui entrano in gioco due concetti chiave:
- lo slow travel, che privilegia la qualità sull’intensità. Non si tratta solo di spostarsi lentamente, ma di abitare i luoghi con uno sguardo più presente, rispettoso e radicato;
- la staycation, una vacanza vissuta nel proprio territorio o poco lontano, riscoprendo ciò che spesso si dà per scontato.
Entrambi si basano su un cambio interiore: sentire che la lentezza non è mancanza di stimoli, ma presenza.
Rallentare per ritrovare il corpo, ascoltare ciò che accade, vivere il tempo, invece di riempirlo.
Spesso, esplorare ciò che ci è vicino con occhi nuovi può essere sorprendente. Il “vicino” non è solo geografico, ma anche emotivo. Una passeggiata con attenzione, un borgo poco conosciuto, un incontro locale possono diventare esperienze nutrienti.
E soprattutto, ci aiutano a ritrovare un ritmo naturale: quello dei nostri bisogni, dei nostri cicli interni, del tempo che non corre ma accompagna.
Lasciare andare l’ansia da prestazione turistica: vivere il viaggio come presenza
Viaggiare in modo lento implica anche lasciare andare molte aspettative: ad esempio, che per “rigenerarsi davvero” si debba partire lontano o fare molto.
Lasciare andare è un atto di libertà. È dare a sé stessi il permesso di scegliere ciò che serve davvero, senza misurarsi con un modello sociale. È riconoscere che una colazione lenta sotto casa può essere più rigenerante di un volo intercontinentale.
Alcune strategie che mi sembrano utili per vivere questo tipo di esperienza:
- scegliere itinerari brevi e flessibili, senza agende serrate;
- ascoltare il corpo: c’è voglia di camminare o di fermarsi?
- lasciare spazio all’imprevisto e, quando accade, provare a renderlo godibile! Qui, l’improvvisazione conta!
A volte può emergere un senso di colpa: la paura di “sprecare le ferie”. Ma questa è solo una forma di confronto sociale. Il tempo di qualità non si misura in chilometri ma, a mio avviso, si misura in presenza.
Ecco che lasciare andare significa anche fare spazio al vuoto buono. Quello che permette alle giornate di respirare, ai pensieri di sedimentare, al piacere di emergere spontaneamente.
Viaggiare lentamente, o addirittura restare, può sembrare controintuitivo in una società che esalta il movimento, ma è anche una scelta profondamente rigenerante.
Trattenere l’idea che il viaggio debba per forza coincidere con l’altrove limita la nostra capacità di sentire.
Lasciare andare quel mito apre a un modo diverso di stare nel mondo: più autentico, più radicato, più nostro.
Rallentare non è restare indietro: è scegliere di non perdersi nel correre. Che a forza di correre guardando cosa fanno gli altri, rischiamo di inciampare nelle nostre stesse stringhe.
E, a volte, è proprio restando che si fanno i viaggi più profondi.