Nel mondo di oggi, dove diete lampo e consigli “miracolosi” spopolano sui social, parlare di obesità in modo serio e consapevole è più necessario che mai. Dietro l’aumento di peso non c’è solo una questione di calorie, ma un intreccio complesso di fattori biologici, psicologici, ambientali e culturali che influenzano il nostro corpo e la nostra mente.
Per capire davvero cosa si nasconde dietro questa condizione, e come affrontarla senza cadere nella trappola della “cultura della dieta”, abbiamo intervistato la Dr.ssa Beatrice Venturi, Nutrizionista, che ci ha accompagnato in un viaggio tra scienza, educazione e consapevolezza.
Dalle vere cause dell’obesità ai rischi delle diete drastiche, fino al ruolo chiave dell’educazione alimentare e alle strategie “smart” per ritrovare equilibrio senza sensi di colpa: un’intervista che ribalta molti luoghi comuni e invita a guardare al cibo (e a noi stessi) con occhi nuovi.
Quali sono le cause più frequenti che portano oggi allo sviluppo dell’obesità, oltre all’alimentazione e alla sedentarietà?
L’obesità non nasce semplicemente da un disavanzo tra calorie introdotte e calorie spese; le cause sono molteplici, interconnesse e in molti casi poco riconosciute.
In primo luogo fattori biologici e genetici giocano un ruolo fondamentale: la predisposizione genetica può influenzare il modo in cui il corpo immagazzina grasso, la sensibilità agli ormoni che regolano fame e sazietà (ad esempio leptina, grelina), il metabolismo basale.
E non solo: l’epigenetica, cioè modifiche nell’espressione genica causate da condizioni durante la vita fetale o nei primi anni di vita (nutrizione materna, salute prenatale) può impostare “set point” metabolici che rendono più facile accumulare peso o più difficile perderlo.
Un’altra causa importante è lo stress cronico e la salute mentale. Chi vive in situazioni di stress protratto, con alti livelli di cortisolo, con disturbi del sonno, con depressione o ansia, spesso accumula grasso viscerale, mangia con modalità emotive, ha difficoltà nel regolare il comportamento alimentare.
Il sonno insufficiente, o di scarsa qualità, altera ormoni che regolano fame/sazietà e può spingere verso scelte alimentari ad alto contenuto energetico.
Poi vi sono determinanti ambientali e socioeconomici: l’accesso a cibo sano, la disponibilità economica, gli orari di lavoro, la progettazione urbana, il quartiere in cui si vive, le opportunità per muoversi, la pubblicità, la pressione sociale.
Infine, la cultura della dieta e lo stigma sociale non sono solo conseguenze dell’obesità, ma possono diventare cause indirette.
Quando il corpo “diverso” è stigmatizzato – per esempio tramite commenti, aspettative sociali, criteri estetici rigidissimi – si instaurano sensi di colpa e vergogna. Tali sentimenti possono provocare alimentazione emotiva, comportamenti compensatori, oscillazioni di peso e persino evitare cure mediche.
Dunque, oltre alle cause “classiche”, bisogna guardare alle interazioni tra genetica, salute mentale, ambiente sociale, pressioni culturali legate al corpo e al cibo.
Spesso si parla di “diete lampo”, ma quanto è rischioso affrontare l’obesità con approcci drastici e poco bilanciati?
Le “diete lampo”, ovvero regimi severamente ipocalorici, privi di varietà o supervisione, sono spesso presentate come soluzioni rapide per risolvere il problema dell’eccesso di peso.
Tuttavia, la letteratura mostra che possono essere non solo inefficaci nel lungo termine, ma anche dannose su vari fronti.
Nel breve periodo possono produrre perdita di peso, ma spesso a scapito della massa magra col risultato che il metabolismo si riduce. Questo abbassa il dispendio energetico a riposo, aumentando la probabilità che il corpo “ricostruisca” peso una volta terminata la dieta.
Inoltre, le restrizioni estreme provocano cambiamenti ormonali: aumento dell’appetito diminuzione del senso di sazietà, variazioni degli ormoni tiroidei, aumento del cortisolo, che può favorire accumulo di grasso, soprattutto viscerale.
Ma i rischi non sono solo fisiologici: il corpo umano, così come la psiche, reagisce anche allo stress di una dieta rigidissima. C’è il rischio di alimentazione ossessiva, pensieri fissi sul cibo, forte senso di colpa dopo ogni “sgarro”, cicli di restrizione/abbuffata (o “yo‑yo diet”). Questi cicli possono anche peggiorare la salute mentale: ansia, depressione, bassa autostima.
E quando lo stigma culturale esercita pressione (“devi essere magro per essere accettato”), le diete lampo possono diventare strumenti per conformarsi, non per la salute.
In alcuni casi clinici, regimi molto ipocalorici sono usati sotto stretta supervisione medica, specialmente in obesità grave o con comorbilità, ma anche lì l’efficacia a lungo termine è limitata se non si costruisce un sistema di supporto che includa cambiamento comportamentale sostenibile, controllo psicologico, adattamento dello stile di vita.
Insomma, affrontare l’obesità con approcci drastici senza considerare la persona nella sua complessità (fisica, psicologica, sociale) può portare a peggioramenti, ricadute e danni che superano i benefici momentanei.
Qual è il ruolo dell’educazione alimentare nella prevenzione dell’obesità sin dall’infanzia?
L’educazione alimentare fin dall’infanzia è una delle chiavi più promettenti per prevenire obesità, non solo come trasmissione di nozioni ma come formazione culturale di rapporti sani con il cibo, sviluppo di competenze, consapevolezza e ambiente favorevole.
Numerose ricerche in Europa hanno mostrato che, in famiglie dove i genitori hanno un livello educativo più alto, i bambini consumano meno alimenti ad alto contenuto di zuccheri e grassi, più frutta e verdura, e hanno migliori pattern alimentari nel tempo.
Lo studio IDEFICS, per esempio, mostra che il livello educativo dei genitori è fortemente correlato con certe scelte alimentari dei figli, suggerendo che le disuguaglianze socio-culturali sono determinanti significative per il rischio di obesità.
Un altro aspetto importante è la modalità di educazione: non si tratta solo di lezioni teoriche, ma di esperienze sensoriali, di apprendimento attivo, di coinvolgimento dei genitori, dei contesti scolastici che offrono cibi salutari, di ridurre la disponibilità di alimenti altamente processati.
L’educazione alimentare svolge anche un ruolo fondamentale nel contrastare lo stigma e la cultura della dieta fin dalla giovane età: insegnare ai bambini che il cibo non è “buono” o “cattivo” in senso morale, che il corpo ha diversità naturali, che la salute comprende molto più del peso; insegnargli a riconoscere segnali di fame e sazietà del proprio corpo, a muoversi perché è piacevole, e non solo per “perdere peso”.
Questo tipo di approccio può prevenire internalizzazioni negative, sensi di vergogna, comportamenti di dieta disordinata.
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È possibile integrare strategie nutrizionali “smart” che non cadano nella cultura della dieta, evitando ossessività e divisioni netti tra alimenti “giusti” e “sbagliati”?
Sì: esistono approcci nutrizionali che promuovono salute e benessere senza cadere nella trappola della moralizzazione dei cibi, dell’ossessione per il controllo, o della stigmatizzazione del corpo. L’idea è muoversi verso modelli flessibili, centrati sulla persona e sul piacere, non solo sul peso o sull’aspetto.
Un primo passo è adottare principi di moderazione e varietà, trattando tutti gli alimenti come potenziali componenti di una dieta equilibrata, piuttosto che dividerli rigidamente in “buoni” e “cattivi”.
Questa distinzione spesso alimenta sensi di colpa, di sgarro che possono sfociare in comportamenti di restrizione seguiti da abbuffate o tradimenti della dieta, e nel contempo rafforzano lo stigma interno: se hai “peccato”, ti senti meno degno, meno sano, meno competente. In molti studi su stigma e salute mentale, il rimorso per lo “sgarro” è un fattore di sofferenza significativo.
Poi, strategie che promuovono ascolto corporale: imparare a riconoscere fame fisiologica vs fame emotiva, sazietà, preferenze personali, ritmo individuale. Questo significa anche accettare che ci possano essere variazioni nel peso, che non ogni oscillazione sia “fallimento”, che i corpi hanno risposte individuali e che la salute non si misura solo in kg.
Alcune modalità che hanno mostrato efficacia includono interventi psicoeducativi centrati sul comportamento alimentare consapevole (“mindful eating”), uso del supporto psicologico per riconoscere le emozioni associate al cibo, lavorare su credenze (“se mangio questo sono cattivo”) che derivano dalla cultura della dieta.
Un altro elemento è rendere sostenibili le modifiche dietetiche: se un cambiamento è troppo rigido o troppo lontano dalle abitudini, spesso non dura.
È meglio iniziare con piccoli aggiustamenti (es: aumentare il consumo di vegetali, ridurre gradualmente gli alimenti ultraprocessati) integrandoli in un contesto sociale piacevole (mensa scolastica, famiglia, comunità), evitando che l’intera identità personale ruoti intorno al cibo/peso.
Infine, un punto politico‐culturale: spostare il discorso pubblico e sanitario dalla colpa alla cura, dalla vergogna alla comprensione.
Promuovere pratiche che rispettino le diversità corporee, riducano lo stigma del peso, formare operatori sanitari affinché non attribuiscano la responsabilità completa dell’obesità al paziente, ma considerino il contesto, le barriere, le risorse.