Una nuova strategia terapeutica potrebbe cambiare l’approccio al glioblastoma, il tumore cerebrale più aggressivo e diffuso tra gli adulti.
Un team internazionale di ricercatori guidato da Fabio Mammano, docente di Fisica e Astronomia all’Università di Padova e associato all’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibbc), ha sviluppato un anticorpo in grado non solo di rallentare la crescita tumorale, ma anche di contrastare l’iperattività neuronale che il tumore stesso induce nei tessuti circostanti.
La scoperta, pubblicata sulla rivista scientifica Cell Communication and Signaling, rappresenta la prima dimostrazione che un anticorpo terapeutico possa agire contemporaneamente su entrambi questi fronti, aprendo la strada a nuove strategie di cura integrate.
Che cos’è il glioblastoma e perché è così difficile da trattare
Il glioblastoma multiforme (GBM) è una neoplasia che colpisce le cellule gliali del cervello ed è caratterizzata da crescita rapida, elevata capacità di infiltrazione nei tessuti sani e resistenza alle terapie convenzionali. Nonostante i progressi della neurochirurgia, della radioterapia e della chemioterapia, la sopravvivenza media dei pazienti resta limitata a circa 15-18 mesi dalla diagnosi.
Uno degli aspetti più critici è la tendenza delle cellule tumorali a invadere in profondità il tessuto cerebrale circostante, rendendo impossibile l’asportazione chirurgica completa. A ciò si aggiunge la comparsa di sintomi neurologici invalidanti, come crisi epilettiche, legati proprio all’iperattività neuronale generata dal tumore.
Ma qual è la novità e i focus della ricerca?
I ricercatori hanno concentrato l’attenzione su un obiettivo specifico: i canali emisomici delle connessine (connexin hemichannels), strutture proteiche che nei tumori cerebrali risultano iperattive.
Questi canali favoriscono il rilascio di molecole che alimentano la crescita tumorale, come l’Adenosin Trifosfato (Atp), principale fonte di energia cellulare, e il glutammato, neurotrasmettitore che contribuisce all’eccitabilità neuronale.
Il rilascio incontrollato di queste sostanze crea un microambiente favorevole alla progressione del tumore e alla comparsa di crisi epilettiche. Bloccare le connessine, dunque, significa agire su due fronti: limitare la proliferazione delle cellule maligne e ridurre i sintomi neurologici correlati.
Glioblastoma e il ruolo dell'anticorpo: i risultati della ricerca
Per raggiungere questo obiettivo è stato sviluppato l’anticorpo monoclonale abEC1.1, capace di inibire selettivamente alcune connessine. Lo studio ha utilizzato sia colture cellulari derivate da pazienti, sia un modello murino rappresentativo della malattia.
I risultati ottenuti sono stati rilevanti:
- riduzione della migrazione e dell’invasività delle cellule tumorali;
- inibizione del rilascio di Atp e glutammato;
- significativa diminuzione del volume tumorale nei topi;
- aumento della sopravvivenza negli animali trattati;
- normalizzazione dell’attività sinaptica alterata dal tumore.
Secondo Mammano, “è la prima volta che un anticorpo terapeutico si dimostra capace di contrastare contemporaneamente la crescita del glioblastoma e l’iperattività neuronale. Questo approccio apre nuove prospettive che mirano non solo alle cellule tumorali, ma anche alle loro interazioni patologiche con l’ambiente cerebrale”.
Si tratta di un approccio che apre a terapie più durature.
L’anticorpo è stato somministrato in due modalità: come proteina purificata e tramite terapia genica con vettori virali Aav (virus adeno-associati). Quest’ultima tecnica, già studiata in altri contesti clinici, ha il potenziale di garantire un effetto terapeutico prolungato con una sola somministrazione, riducendo così la necessità di trattamenti ripetuti.
Questa caratteristica potrebbe rivelarsi particolarmente preziosa per una malattia come il glioblastoma, che spesso non lascia tempo a protocolli terapeutici complessi e di lunga durata.
L'importanza della scoperta e le prospettive future
La tecnologia è coperta da un brevetto condiviso tra l’Università di Padova, il Cnr, l’Università di Milano e la ShanghaiTech University.
Lo studio è stato condotto in collaborazione con istituzioni accademiche italiane e cinesi e ha ricevuto il sostegno del Ministero dell’Università e della Ricerca (Prin), della Fondazione Cariparo, della Fondazione Giovanni Celeghin, della ShanghaiTech University e della Fondazione Umberto Veronesi.
Il prossimo passo sarà la validazione dei risultati in ulteriori modelli preclinici, condizione necessaria per arrivare, in futuro, a studi clinici sull’uomo. Sebbene la strada sia ancora lunga, i dati raccolti rappresentano un segnale concreto di come la ricerca sugli anticorpi monoclonali possa offrire nuove opportunità terapeutiche per patologie fino ad oggi considerate intrattabili.
Il valore dello studio risiede non solo nei risultati ottenuti, ma anche nel cambio di prospettiva che propone: non limitarsi a colpire la cellula tumorale, ma interrompere il dialogo patologico tra tumore e cervello.
Questo approccio integrato potrebbe ridurre complicanze come le crisi epilettiche, migliorare la qualità della vita dei pazienti e aprire la strada a combinazioni terapeutiche più efficaci.
Il glioblastoma resta una delle sfide più dure della neuro-oncologia, ma la ricerca continua a indicare nuove vie. L’anticorpo abEC1.1 potrebbe rappresentare una delle più promettenti.
Fonti:
PubMed - Connexin hemichannel blockade by abEC1.1 disrupts glioblastoma progression, suppresses invasiveness, and reduces hyperexcitability in preclinical models