La ricerca psichiatrica sta oggi guardando con rinnovato interesse a un vecchio nemico della salute: l’infiammazione cronica.
Diversi gruppi di studiosi stanno indagando il suo ruolo nello sviluppo di disturbi come depressione e demenza e valutano se alcuni farmaci antinfiammatori, già disponibili per altre patologie, possano essere riutilizzati in questo campo.
L'obiettivo dunque è trovare nuove soluzioni dove i trattamenti tradizionali, fermi a molecole sviluppate negli anni Sessanta, non sono più sufficienti.
Infiammazione cronica e cervello: una disciplina rimasta indietro?
Secondo la rinomata rivista scientifica New Scientist, che ha raccolto tutti i dati a riguardo, la medicina moderna ha ottenuto successi straordinari negli ultimi decenni.
Nei Paesi ad alto reddito, la sopravvivenza alla leucemia infantile è passata da meno del 10% a oltre il 90%; il vaccino contro l’HPV ha ridotto drasticamente i casi di tumore cervicale; le persone con HIV, se diagnosticate precocemente, hanno aspettative di vita paragonabili alla media della popolazione.
La psichiatria, invece, non ha visto la medesima trasformazione.
Molti dei farmaci ancora oggi utilizzati risalgono agli anni Cinquanta e Sessanta, e le nuove scoperte genetiche e molecolari non si sono tradotte in cure che possano considerarsi radicalmente diverse.
La conseguenza è che una parte significativa dei pazienti non giunge ad ottenere benefici. Infatti, si stima che circa il 30% delle persone trattate con antidepressivi non risponda alle terapie.
In questo scenario, l’attenzione si sta spostando verso l’infiammazione cronica di basso grado, un processo silenzioso e persistente che nasce da fattori comuni della vita moderna come stress prolungato, cattive abitudini alimentari e obesità. Da tempo nota come causa o concausa di malattie cardiovascolari e diabete di tipo 2, oggi è sempre più associata anche a problemi di salute mentale.
Diversi studi mostrano che uno stato infiammatorio costante può alterare il funzionamento cerebrale, favorendo sintomi depressivi, ansia e persino il declino cognitivo. Non si tratta quindi di un semplice fattore secondario, ma di un potenziale meccanismo biologico alla base di patologie che finora sono state affrontate soprattutto sul piano psicologico o farmacologico tradizionale.
Farmaci già noti e nuove prospettive
L’ipotesi più promettente è quella di riutilizzare farmaci antinfiammatori già disponibili. Alcune molecole, nate per ridurre infiammazioni articolari o sistemiche, potrebbero essere efficaci anche nel modulare la risposta immunitaria del cervello. In questo modo sarebbe possibile limitare l’impatto dell’infiammazione su depressione e demenza.
Il vantaggio di questo approccio è duplice: da un lato si riducono i tempi di ricerca, dall’altro si parte da farmaci di cui già conosciamo effetti collaterali e sicurezza. Non si tratterebbe di sostituire le terapie esistenti, ma di affiancarle, offrendo nuove chance soprattutto a chi non risponde agli antidepressivi convenzionali.
Queste scoperte gettano nuova luce anche sulle strategie quotidiane per la salute mentale. È noto che attività come fare esercizio fisico, seguire una dieta equilibrata o praticare tecniche di rilassamento abbiano effetti benefici sull’umore. Ora si comprende meglio perché: tutte queste abitudini contribuiscono a ridurre i livelli di infiammazione.
L’attività fisica, ad esempio, migliora il metabolismo e abbassa i marcatori infiammatori. Un’alimentazione ricca di fibre, frutta e verdura contrasta i processi infiammatori. Tecniche di gestione dello stress come la meditazione o la respirazione profonda riducono il cortisolo, un ormone legato a risposte infiammatorie croniche. Non sono quindi semplici consigli di benessere, ma vere e proprie armi biologiche contro uno dei fattori che minano la salute del cervello.
Un potenziale cambio di passo atteso da decenni
L’infiammazione cronica non spiega da sola l’origine di tutte le malattie psichiatriche, ma potrebbe rappresentare la chiave di volta per ampliare le opzioni terapeutiche. Con milioni di persone nel mondo che soffrono di ansia, depressione e disturbi cognitivi, e con un terzo dei pazienti resistenti ai trattamenti attuali, una nuova via è necessaria.
La sfida dei prossimi anni sarà trasformare questa ipotesi in pratica clinica, dimostrando in modo definitivo se bloccare l’infiammazione può davvero cambiare la psichiatria. Se le prove continueranno a confermarsi, potremmo essere all’inizio di una rivoluzione attesa da decenni.
Fonti:
New Scientist: " A new angle on brain health could bring much-needed new treatments "