Dentro l’ecosistema della violenza di genere: l’importanza di riflettere senza colpevolizzare le donne

Arianna Bordi | Autrice e divulgatrice esperta in salute femminile, psicologia e salute del cervello
A cura di Arianna Bordi
Autrice e divulgatrice esperta in salute femminile, psicologia e salute del cervello

Data articolo – 24 Novembre, 2025

Coppia che litiga in cucina, donna frustrata che ascolta l'uomo che urla

Femicides, Anti-Violence Centers, and Policy Targeting, uno studio di quest'anno a cura dei ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche dell’Università Sapienza di Roma, evidenzia la natura trasversale della violenza di genere.

Infatti, questo fenomeno strutturale e socio-culturale non mostra differenze significative legate a fattori socioeconomici: l'andamento del rischio non cambia in modo rilevante in base al reddito, al livello di istruzione o al tasso di occupazione.

Inoltre, il dramma della misoginia non registra alcuna netta disparità tra le diverse macro-aree del Paese, dimostrando che non esiste un divario chiaro nemmeno tra il Nord e il Sud in termini di propensione a questa forma estrema di violenza.

Grazie al contributo della psicologa e consulente di coppia Federica Ferrajoli, abbiamo esplorato dei punti fondamentali dal punto di vista psicologico riguardo le dinamiche relazionali che rischiano di sfociare nella violenza di genere.

Si parla di "dipendenza affettiva" nelle relazioni che conducono alla violenza di genere. Può spiegarci cosa significa?

La dipendenza affettiva è una condizione psicologica in cui una persona vive l’altro come indispensabile per la propria stabilità emotiva, identità e senso di valore

Non si tratta di “amare troppo”, come spesso si sente dire, ma di un legame disfunzionale che si struttura sulla paura dell’abbandono, sulla svalutazione di sé e sulla necessità di compiacere læ partner per evitare conflitti o di perdere la relazione.

Nelle dinamiche che possono sfociare in violenza di genere, ldipendenza affettiva diventa un terreno fertile: la persona dipendente tende a minimizzare o giustificare i comportamenti abusanti del partner, a interiorizzare colpe, a credere di non “meritare” di meglio e a vivere l’idea della separazione come una minaccia intollerabile. 

L’abusante, dal canto suo, spesso alimenta questa dinamica alternando fasi di svalutazione a momenti di riavvicinamento, manipolazione affettiva e promesse di cambiamento e redenzione; si tratta di un ciclo che crea un legame traumatico che rende estremamente difficile la rottura

In questo genere di copione relazionale abitano meccanismi psicologici profondi, spesso radicati in storie di vita precedenti, che necessitano di ascolto, rispetto e supporto professionale. 

Quali sono gli errori più comuni da evitare quando si cerca di aiutare le donne (sorelle, amiche, mamme, etc.) che non riescono a uscirne?

L’errore, per così dire, più frequente, è adottare un approccio giudicante, anche involontariamente: frasi come “Perché non lo lasci?”, “Io al tuo posto me ne sarei già andata”, “Se resti è anche un po’ colpa tua” rischiano di aumentare la vergogna, l’isolamento e la confusione della vittima di violenza, che spesso già si sente responsabile della situazione o teme di non essere creduta. 

Un altro errore potrebbe essere quello di prendere decisioni al posto suo, come organizzare una fuga senza il suo consenso o forzarla a fare una denuncia quando non si sente pronta: questo può essere percepito come un’ulteriore forma di controllo, persino se nasce da buone intenzioni.

Anche banalizzare la violenza psicologica è un rischio: molte persone, infatti, credono che “finché non colpisce, non è così grave”; in realtà, la violenza psicologica è spesso l’anticamera di quella fisica ed è già di per sé profondamente distruttiva. 

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Infine, non bisogna sottovalutare la forza della manipolazione psicologica dellæ partner abusante: commenti come “Ma sembrava così bravo” possono mettere in dubbio la percezione della vittima.

La cosa più importante è esserci, con continuità e senza pressioni: ascoltare senza giudizio, validare le emozioni, fornire informazioni sui servizi disponibili (centri antiviolenza, supporto psicologico, aiuti legali), e lasciare che sia la persona, accompagnata in sicurezza, a decidere i tempi.

In cosa consiste e qual è l'impatto a lungo termine di una violenza psicologica, specialmente se reiterata nel tempo?

La violenza psicologica può manifestarsi in molte forme: umiliazioni, svalutazioni, controllo costante, isolamento sociale, manipolazione, gaslighting, minacce non necessariamente fisiche ma emotive, ricatti e alternanza di freddezza emotiva e distanza a manifestazioni affettive di grande intensità. 

Nel tempo, questi comportamenti intaccano profondamente l’autostima e la percezione della realtà e la vittima di violenza finisce per interiorizzare il messaggio: “Non valgo nulla, non posso farcela da sola, merito questo trattamento”; è un processo lento, sotterraneo e molto più difficile da riconoscere rispetto alla violenza fisica.


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Gli effetti a lungo termine sono significativi: disturbi d’ansia, depressione, attacchi di panico, disturbi dell’immagine di sé, difficoltà a fidarsi degli altri, ipervigilanza, disturbi del sonno, somatizzazione.

In molti casi si sviluppano sintomi da stress post-traumatico complesso (C-PTSD): flashback emotivi, dissociazione, sentimenti di colpa radicati, paura del conflitto, incapacità di percepire i propri bisogni. 

Le relazioni future possono risultare condizionate da queste ferite: c’è chi evita qualsiasi legame per paura di rivivere l’esperienza, e chi invece rischia di cadere nuovamente in dinamiche di dipendenza.

È fondamentale sottolineare che tutto questo non è irreversibile: infatti, con un adeguato percorso terapeutico, supporto sociale e un ambiente che favorisce la ricostruzione dell’autonomia, è possibile recuperare un senso di sé solido e relazioni sane.

Quali sono i passi del percorso terapeutico per chi esce da una relazione violenta?

Il percorso terapeutico non è uguale per tutti, ma ci sono fasi ricorrenti che, in genere, accompagnano la rinascita della persona:

  • la prima fase è la messa in sicurezza, sia fisica sia emotiva: questo può significare rivolgersi a un centro antiviolenza, definire un piano di protezione, oppure semplicemente avere uno spazio sicuro dove elaborare ciò che è accaduto. È fondamentale interrompere o ridurre il contatto con l’abusante e creare una rete di supporto affidabile;
  • la seconda fase è quella della ricostruzione narrativa: la persona impara a raccontare la propria storia senza colpevolizzarsi, comprendendo i meccanismi della manipolazione, riconoscendo la violenza per ciò che è stata e distinguendola dall’amore. È spesso il momento più doloroso, perché comporta la frantumazione di molte illusioni e la revisione profonda dell’immagine di sé;

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  • segue la fase di riappropriazione dell’identità e dei bisogni: in questo contesto la terapia aiuta a riscoprire desideri, limiti, confini personali e competenze che nel tempo erano state annullate; si lavora sull’autostima, sull’autonomia emotiva, sulla capacità di riconoscere segnali di allarme in future relazioni;
  • un altro step importante è il lavoro sul trauma, che può avvalersi di tecniche specifiche come EMDR, terapia somatica, mindfulness integrata al trattamento del PTSD. L’obiettivo è ridurre l’intrusività dei ricordi traumatici e restituire alla persona un senso di controllo sul proprio corpo e sulle proprie emozioni.

Infine, c’è la fase della riapertura al mondo: relazioni affettive più sane, progetti personali, nuove abitudini, la possibilità di immaginare un futuro libero dalla paura; e sì, è un processo graduale, ma rappresenta uno dei segnali più importanti di guarigione.

Fonti:

Social Science Research Network (SSRN) - Femicides, Anti-Violence Centers, and Public Salience

Le informazioni proposte in questo sito non sono un consulto medico. In nessun caso, queste informazioni sostituiscono un consulto, una visita o una diagnosi formulata dal medico. Non si devono considerare le informazioni disponibili come suggerimenti per la formulazione di una diagnosi, la determinazione di un trattamento o l’assunzione o sospensione di un farmaco senza prima consultare un medico di medicina generale o uno specialista.
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