La sensazione di essere un “impostore”, di non meritare i propri successi, è un fenomeno più diffuso di quanto si pensi: alcune stime indicano che circa il 70% degli adulti lo sperimenti almeno una volta nella vita.
Non si tratta solo di un’insicurezza dei meno esperti: perfino figure di spicco, dai dirigenti d’azienda ai campioni dello sport, hanno confessato di provare questo dubbio interiore. Finora, la cosiddetta sindrome dell’impostore è stata considerata un difetto personale da correggere a tutti i costi.
Ma una nuova revisione scientifica pubblicata sull’autorevole rivista Academy of Management Annals, ribalta questa prospettiva: i risultati sfatano quattro luoghi comuni sul fenomeno, mostrando che i pensieri di inadeguatezza sono in realtà temporanei, normali e possono perfino rivelarsi utili per la crescita personale e professionale.
Sfatare i miti della “sindrome dell’impostore”
Gli studiosi hanno individuato 4 falsi miti che da anni circondano la sindrome dell’impostore. Correggendo queste idee sbagliate, la ricerca offre una visione più sfumata e persino ottimistica di questa condizione psicologica. Ecco i punti chiave emersi dallo studio:
Non è permanente
Parlare di “avere” la sindrome dell’impostore, come se fosse una condizione cronica, è fuorviante, in realtà si tratta di pensieri che vanno e vengono. Quello che può sembrare un tratto caratteriale fisso è invece uno stato mentale temporaneo.
La stessa parola “sindrome” risulta impropria, perché patologizza un’esperienza umana comune. Per questo una degli autori, Basima Tewfik (MIT Sloan), propone di chiamarla più accuratamente “pensieri d’impostore sul lavoro”, sottolineandone il carattere transitorio e situazionale.
Tipicamente questi dubbi affiorano in momenti di crescita professionale, ad esempio dopo una promozione, quando aumentano le responsabilità. Sentirsi inesperti di fronte a nuove sfide non è prova di fallimento, ma segnale che si sta operando al limite delle proprie competenze, una condizione normale se si sta avanzando di carriera.
Non colpisce solo le donne
È opinione diffusa che il “fenomeno dell’impostore” riguardi soprattutto le donne (magari in contesti dominati dagli uomini) o altri gruppi poco rappresentati. In realtà le evidenze scientifiche sono contrastanti: la nuova review non ha riscontrato differenze significative nell’incidenza tra i sessi.
Il fattore scatenante sembra dipendere più dal contesto che dall’identità di genere o dall’appartenenza etnica. Ad esempio, ambienti lavorativi competitivi e situazioni di elevata visibilità possono indurre chiunque a sentirsi inadeguato, indipendentemente dal proprio background.
Una ricerca inedita di Sean Martin (University of Virginia) suggerisce che la dimensione organizzativa incide molto su questi pensieri: trovarsi fisicamente in ufficio può accentuare l’insicurezza in chi già ne soffre, mentre il lavoro da remoto tende ad attenuarla.
Tuttavia, isolarsi troppo a lungo potrebbe avere un rovescio della medaglia, privando la persona di quei riscontri positivi dai colleghi che aiutano a ridimensionare la paura di essere “smascherati”. In sintesi, la “sindrome” non è appannaggio di un solo genere: può toccare chiunque si trovi in un ruolo nuovo o sfidante senza adeguato supporto.
Non è sempre dannosa
Contrariamente a quanto si pensa, dubitare di sé non porta necessariamente a cali di performance, anzi, può avere risvolti positivi. Lo studio ha rivelato che i lavoratori che sperimentano più spesso il pensiero di essere impostori vengono giudicati più efficaci nelle relazioni interpersonali.
La modestia e l’insicurezza li spingono ad ascoltare con attenzione, collaborare genuinamente e chiedere aiuto quando necessario, migliorando il clima di lavoro. Questa scoperta offre un contro-narrativa incoraggiante: il dubbio, entro certi limiti, può rendere una persona un collega e un leader più empatico e attento.
Come fa notare Martin, se si ha la percezione che gli altri si aspettino da noi competenze che non possediamo pienamente, significa anche che gli altri ci reputano capaci, un segnale tutt’altro che negativo.
Inoltre, un po’ di autocritica contrasta il pericolo opposto, quello di un’eccessiva sicurezza di sé. In ambito decisionale, l’overconfidence è spesso all’origine di errori gravi; normalizzare un sano dubbio può quindi prevenire passi falsi dovuti alla presunzione.
Non è un disturbo da curare
L’ultimo mito riguarda la natura intrinseca di questo fenomeno. Molti suppongono che le sensazioni da impostore generino inevitabilmente vergogna, stress e scarso rendimento, quasi fosse una patologia personale. In realtà gli studi finora non confermano un meccanismo psicologico univoco di causa-effetto.
Alcune persone convivono con questi pensieri senza subire contraccolpi significativi, soprattutto se inserite in un ambiente di lavoro supportivo.
Gli esperti sottolineano che provare insicurezza sul lavoro non è segno di debolezza individuale, bensì uno spunto di riflessione sul clima organizzativo. Se un dipendente manifesta il timore di essere inadeguato e lo vive in modo molto negativo, potrebbe voler dire che non si sente al sicuro nel proprio team.
In questi casi, più che “curare” il singolo con corsi motivazionali, i manager dovrebbero interrogarsi sulla cultura aziendale: è fondamentale creare un ambiente di sicurezza psicologica, in cui sia lecito esprimere dubbi senza paura di giudizio o ritorsioni. Anche la leadership gioca un ruolo chiave: quando chi sta al vertice ammette di non sapere tutto o condivide i propri errori, lancia un messaggio potente.
Così facendo, normalizza il fatto che si è tutti in continua crescita e al tempo stesso sfrutta strategicamente i benefici del dubbio (evitando la trappola della troppa sicurezza).
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Conclusioni
Per l’individuo che lotta con sentimenti di inadeguatezza, questa nuova prospettiva offre un immediato sollievo. Innanzitutto, significa riconoscere che i pensieri da impostore non dureranno per sempre: come ogni emozione, hanno natura passeggera e tendono a dissolversi con l’esperienza.
Inoltre, paradossalmente, quelle sensazioni di insicurezza sono la prova che si sta crescendo e che le persone intorno a noi hanno fiducia nelle nostre capacità.
Invece di patologizzare il dubbio di sé, dunque, si propone di accoglierlo come un normale compagno nelle fasi di sviluppo personale e professionale. In futuro, non sarà avvantaggiato chi non prova mai insicurezza, ma chi saprà usare quella dose di dubbio come stimolo per migliorarsi e costruire ambienti di lavoro in cui l’onestà emotiva sia non solo permessa, ma valorizzata.
Fonti
- Academy of Management Annals - Workplace Impostor Thoughts, Impostor Feelings, and Impostorism: An Integrative, Multidisciplinary Review of Research on the Impostor Phenomenon