Parlare di cibo in terapia: nutrizionista e psicologa a confronto

Emanuela Spotorno | Editor

Ultimo aggiornamento – 23 Settembre, 2025

ragazza parla con la sua psicologa

Parlare di alimentazione in terapia significa scoprire come cibo e mente possano influenzarsi a vicenda. Negli ultimi anni, studi sempre più approfonditi hanno evidenziato che alcuni nutrienti sostengono l’umore, la funzione cognitiva e la resilienza emotiva

Ma attenzione: il cibo non è una “cura miracolosa”, bensì un alleato prezioso all’interno di un percorso terapeutico più ampio.

Ne parliamo con la Dr.ssa Federica Ferrajoli, psicologa, e la Dr.ssa Beatrice Venturi, nutrizionista, che ci spiegano come scegliere e adattare l’alimentazione senza creare ansia o rigidità, come smascherare i falsi miti sui cosiddetti “cibi per la mente” e quanto sia fondamentale un approccio integrato tra professionisti per supportare davvero il benessere psicologico.

Ecco le domande che abbiamo posto alla Dr.ssa Federica Ferrajoli:

Il rapporto tra intestino e cervello è sempre più discusso: in che modo i pazienti percepiscono questo legame tra alimentazione e salute mentale?

Negli ultimi anni i pazienti arrivano spesso in studio già con una certa curiosità sul legame tra intestino e cervello. Capita di frequente che portino sintomi molto concreti: “ho sempre la pancia gonfia”, “ho attacchi di fame”, “vado in bagno male”, oppure al contrario “non ho mai fame”, “sono inappetente”. 

Da lì nascono domande e riflessioni su quanto questi vissuti corporei siano collegati anche al benessere psicologico. Spesso, infatti, ciò che emerge è che dietro a questi segnali ci sono momenti di vita carichi di stress, ansia o difficoltà emotive che trovano espressione nel corpo. 

Alcuni sintomi diventano così il linguaggio con cui il corpo segnala un disagio, e questo apre lo spazio per un dialogo nuovo tra mente e corpo. Ciò che noto è che questa consapevolezza non riguarda soltanto cosa si mangia, ma anche come si attraversano le proprie esperienze di vita, e come queste si riflettano nel modo in cui ci si sente durante e dopo il pasto. 

Questo spostamento di prospettiva permette di entrare in contatto più profondo con sé stessi e spesso diventa un punto di partenza per lavorare sulla consapevolezza emotiva.

Quanto il cibo può diventare un alleato nel percorso psicologico e quando, invece, rischia di trasformarsi in un’ulteriore fonte di ansia o controllo?

Il cibo ha un valore enorme come risorsa psicologica: non è soltanto nutrimento biologico, ma anche esperienza affettiva e simbolica. Un pasto condiviso con persone care, ad esempio, può diventare occasione di connessione, di piacere, di pausa dalla frenesia. 

Allo stesso tempo, però, non sempre la tavola è un luogo di leggerezza: per alcune persone rappresenta un momento carico di tensioni, dove attorno al cibo si intrecciano aspettative familiari, ruoli, conflitti e dinamiche relazionali che ne amplificano il significato. In questo senso, introdurre attenzione alla qualità e alla ritualità del cibo può rafforzare il percorso psicologico, perché rappresenta un modo tangibile di prendersi cura di sé. 

Ma quando l’alimentazione viene caricata di aspettative eccessive, può diventare un terreno fragile: la ricerca di una dieta “perfetta” o di cibi sempre “giusti” rischia di trasformarsi in rigidità, ansia o senso di colpa. 

In questi casi il cibo smette di essere un alleato e diventa un meccanismo di controllo che alimenta frustrazione e autosvalutazione. Il lavoro psicologico, allora, consiste nell’aiutare la persona a recuperare un rapporto più flessibile e sereno con l’alimentazione, dove non è tanto la singola scelta alimentare a fare la differenza, quanto la capacità di ascoltarsi e di dare valore al proprio benessere complessivo.

Spesso si parla di alimentazione come supporto al benessere mentale, ma quali sono i limiti di questo approccio?

Il cibo può certamente sostenere l’umore e la salute mentale, ma è fondamentale non cadere nell’illusione che sia la “cura miracolosa”. Alcuni nutrienti hanno un ruolo riconosciuto nel funzionamento del cervello, e una dieta varia e bilanciata contribuisce al benessere psicofisico generale. Tuttavia, ridurre la complessità del disagio psicologico alla sola alimentazione è fuorviante. 

La salute mentale è influenzata da una rete complessa di fattori: predisposizione biologica, qualità delle relazioni, esperienze di vita, contesto sociale e culturale, eventi traumatici o stressanti. Se pensiamo che basti “mangiare meglio” per risolvere un problema di ansia, depressione o bassa autostima, rischiamo di semplificare e di colpevolizzare le persone: “se non stai bene, è perché non sai alimentarti correttamente”.

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Questo messaggio può essere molto pesante da interiorizzare. Il limite, quindi, è credere che l’alimentazione da sola basti. In realtà, va considerata come un tassello che funziona meglio se integrato con altri interventi, dalla psicoterapia al movimento, dal sostegno sociale fino, quando necessario, all’aiuto farmacologico. Solo mantenendo questa prospettiva di complessità possiamo davvero offrire un supporto efficace e rispettoso della persona.

Quanto è importante la collaborazione con altre figure, come i nutrizionisti, per offrire un sostegno integrato al paziente?

I miei pazienti mi sentono spesso sottolineare che la salute è una dimensione ‘olistica’: non riguarda solo il corpo né solo la mente, ma l’interazione costante tra tutti gli aspetti della persona. Ogni esperienza fisica, psicologica e sociale si intreccia e contribuisce al benessere complessivo; trascurare una di queste componenti rischia di lasciare incompleto il percorso di cura. 

La collaborazione tra psicologi, nutrizionisti, medici e altre figure professionali diventa così fondamentale: un nutrizionista può offrire competenze tecniche e personalizzate sul piano alimentare, mentre lo psicologo aiuta a lavorare sulle emozioni, le abitudini e i vissuti legati al cibo e all’immagine corporea. 

Quando queste figure dialogano in modo costruttivo, il paziente non riceve messaggi contrastanti, ma si sente accompagnato in un percorso coerente e integrato. Inoltre, questa rete professionale facilita l’individuazione di eventuali segnali di disagio specifico, come un disturbo alimentare o una patologia organica, orientando la persona verso l’intervento più adeguato. In definitiva, collaborare significa costruire attorno al paziente un sistema di cura che lo faccia sentire sostenuto a 360º gradi, valorizzando tutte le dimensioni del suo benessere.

Ecco le domane che abbiamo posto alla Dr.ssa Beatrice Venturi.

Le ricerche sul ruolo del cibo nella salute mentale sono in crescita: quali principi nutrizionali hanno mostrato effetti positivi sull’umore e sulla funzione cognitiva?

I principi nutrizionali con effetti positivi sull'umore e sulla funzione cognitiva sono principalmente gli acidi grassi omega-3, alcune vitamine del gruppo B e il triptofano, un aminoacido essenziale.

Gli acidi grassi omega-3 (EPA e DHA) sono componenti strutturali delle membrane cerebrali e neuronali. Il DHA è fondamentale per lo sviluppo e il mantenimento del cervello, mentre l'EPA ha importanti effetti antinfiammatori che proteggono le cellule cerebrali. La carenza di omega-3 è stata collegata a un maggior rischio di depressione.

Il triptofano è un aminoacido essenziale, precursore della serotonina, il neurotrasmettitore noto come "ormone del benessere". Una dieta ricca di triptofano può favorire la sintesi di serotonina e avere un impatto positivo sull'umore.
 Le vitamine del gruppo B (B6, B9, B12) sono cruciali per la sintesi e il metabolismo di neurotrasmettitori come la serotonina, la dopamina e la noradrenalina. 

La loro carenza può compromettere queste vie biochimiche, influenzando l'umore e la memoria. Inoltre, il magnesio, lo zinco e la vitamina D contribuiscono alla neurotrasmissione e alla protezione cerebrale. 

Infine, un aspetto fondamentale è il ruolo del microbiota intestinale che, attraverso l'asse intestino-cervello, influenza direttamente la salute mentale producendo composti che modulano l'infiammazione e la produzione di neurotrasmettitori.

Molti pazienti in terapia lamentano cambiamenti di appetito o gusto: come può essere adattata la dieta senza compromettere il benessere psicologico?

Un paziente che già affronta fragilità psicologiche può sviluppare un rapporto complicato con il cibo. Le strategie nutrizionali devono quindi mirare a sostenere il benessere mentale:

  • Flessibilità e riduzione dello stress: Invece di un piano rigido, è preferibile un approccio che suggerisca principi e scelte, piuttosto che imporre quantità o alimenti. Questo riduce la pressione e il senso di fallimento se non si riesce a seguire tutto alla lettera.
  • Ascolto dei segnali del corpo: L'educazione alimentare si concentra su come riconoscere i segnali di fame e sazietà, rispettandoli, anche quando sono alterati. L'obiettivo non è controllare l'appetito, ma imparare a gestirlo con consapevolezza e senza sensi di colpa.
  • Strategie per affrontare l'aumento dell'appetito: In caso di fame eccessiva, piuttosto che imporre restrizioni, il nutrizionista può suggerire cibi che offrono sazietà come quelli ricchi di fibre e proteine. L'obiettivo è prevenire il senso di privazione, che potrebbe scatenare comportamenti alimentari non sani.
  • Adattabilità al gusto: Se il gusto cambia, si può lavorare insieme per re-immaginare i pasti. L'uso di spezie, erbe aromatiche e consistenze diverse può trasformare il cibo da una necessità insapore a un'esperienza sensoriale, ripristinando un piacere che spesso si perde in questi percorsi.

Quali sono i falsi miti più diffusi sul “cibo che fa bene alla mente” e cosa conviene chiarire?

Uno dei falsi miti più diffusi è l’idea che esistano singoli alimenti in grado, da soli, di potenziare significativamente le funzioni cognitive o migliorare l’umore. In realtà, la salute cerebrale è influenzata da un insieme complesso di fattori nutrizionali e non può essere migliorata in modo significativo attraverso l’assunzione isolata di specifici “brain food”.

È frequente anche una visione eccessivamente semplificata di alcuni alimenti funzionali, come ad esempio il cioccolato fondente o i frutti di bosco, spesso presentati come cibi utili per migliorare le performance cognitive. Sebbene contengano composti bioattivi potenzialmente benefici (come flavonoidi e polifenoli), i loro effetti sono dose-dipendenti e inseriti in dinamiche nutrizionali complesse, che richiedono continuità nel tempo e sinergia con altri fattori dietetici e comportamentali.

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Un altro fraintendimento riguarda l’eliminazione dei carboidrati nella dieta, in realtà, le diete fortemente ipoglucidiche, se non ben strutturate e monitorate, possono compromettere la salute mentale, specialmente nel lungo termine. È più corretto, quindi, parlare di un modello alimentare neuroprotettivo — come quello mediterraneo o MIND — piuttosto che di singoli alimenti. 

Questi pattern dietetici, supportati da evidenze epidemiologiche e cliniche, sono caratterizzati da un’elevata densità di nutrienti neuroattivi, tra cui acidi grassi omega-3, polifenoli, vitamine del gruppo B e antiossidanti, il cui effetto sinergico sembra avere un ruolo nella prevenzione del declino cognitivo e nel supporto alla salute mentale.

Come può una dieta bilanciata aiutare a sostenere la terapia psicologica senza cadere nell’idea che il cibo da solo possa “curare”?

La nutrizione e la salute mentale sono strettamente interconnesse, ma è fondamentale sottolineare che la dieta non può e non deve essere considerata una terapia sostitutiva agli interventi psicologici o psichiatrici. 

Piuttosto, può rappresentare un’importante strategia complementare, in grado di supportare il percorso terapeutico attraverso il miglioramento del quadro metabolico, infiammatorio e neurochimico dell’organismo.

Numerose evidenze suggeriscono che una dieta bilanciata — ricca di nutrienti neuroprotettivi come acidi grassi omega-3, vitamine del gruppo B, magnesio, ferro, zinco, triptofano e polifenoli — possa contribuire al mantenimento dell’equilibrio dell’umore e della funzione cognitiva, anche modulando la risposta allo stress e l’asse intestino-cervello.

Questo può tradursi in una maggiore stabilità emotiva, miglioramento dell’energia percepita e maggiore aderenza alle terapie psicologiche o farmacologiche in corso.

Tuttavia, è importante non sovrastimare il ruolo del cibo come strumento terapeutico diretto. L’idea che “basti mangiare bene per stare bene” rischia di banalizzare la complessità dei disturbi psicologici e di promuovere un approccio riduzionista, che può generare frustrazione o senso di colpa nei pazienti se i miglioramenti non arrivano rapidamente.

L’approccio più corretto è quello integrato e interdisciplinare: la dieta può contribuire a creare le condizioni fisiologiche più favorevoli per la risposta ai trattamenti psicologici, ma è solo uno degli elementi di un piano terapeutico più ampio, che include anche il supporto emotivo, la psicoterapia, l’eventuale trattamento farmacologico, l’attività fisica e il sonno.

In sintesi, una dieta bilanciata non "cura" la sofferenza psicologica, ma può rappresentare un alleato prezioso per sostenere la resilienza mentale e migliorare la qualità della vita durante il percorso terapeutico.

Emanuela Spotorno | Editor
Scritto da Emanuela Spotorno | Editor

Amo da sempre i libri e la lettura e negli ultimi anni mi sono appassionata a tematiche legate al benessere, all'alimentazione e al mondo Pet. Finalmente su Pazienti.it posso scrivere di argomenti che mi coinvolgono ed appassionano.

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Emanuela Spotorno | Editor
Emanuela Spotorno | Editor
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