Nel dibattito contemporaneo sul corpo e sull’identità, si parla sempre più spesso di “libertà estetica” come parte integrante del benessere psicologico. Ma che cosa significa davvero vivere con libertà il rapporto con il proprio corpo? E in che modo l’abbandono, parziale o selettivo, di certi rituali estetici può influenzare la nostra salute mentale?
Come psicologa, osservo frequentemente nei colloqui quanto il rapporto con il corpo non sia mai neutro: è influenzato da aspettative sociali, norme culturali, messaggi pubblicitari e da immagini filtrate e idealizzate nei social media. Questo intreccio complesso può tradursi in un carico mentale costante legato all’aspetto fisico, alla percezione di non essere mai “abbastanza” o, abbastanza conformi.
Non si tratta, quindi, solo di scegliere se “truccarsi o no”: è un discorso più ampio, che riguarda il modo in cui costruiamo il nostro senso di sé, e quanto spazio nella nostra mente occupano le preoccupazioni estetiche.
Il corpo come terreno culturale
Dal punto di vista della psicologia sociale, il corpo femminile è da sempre oggetto di una forte regolamentazione simbolica. L’antropologa Naomi Wolf, nel suo saggio The Beauty Myth (1990), descrive la bellezza come un dispositivo di controllo sociale: un insieme di standard che cambiano nel tempo, ma che mantengono costante l’effetto di limitare la libertà e il potere delle donne attraverso l’autocontrollo.
In termini più attuali, si potrebbe parlare di un “capitalismo estetico” in cui l’apparenza diventa una forma di prestazione individuale continua.
I dati confermano questo peso psicologico. Secondo una ricerca pubblicata sul Journal of Health Psychology (Grabe, Ward, & Hyde, 2008), l’esposizione prolungata a immagini idealizzate di corpi femminili aumenta significativamente la probabilità di sviluppare insoddisfazione corporea, sintomi depressivi e comportamenti disfunzionali legati alla cura di sé.
Non è un effetto superficiale: si tratta di un meccanismo che può incidere sulla qualità della vita e sul funzionamento sociale.
Cura di sé o controllo interiorizzato?
Prendersi cura del proprio corpo non è di per sé un problema. Anzi, molte pratiche estetiche possono avere un valore positivo, anche psicologicamente. Pensiamo al valore rituale della cura, al piacere sensoriale, all’uso della creatività nel giocare con l’immagine. Ma la differenza sta nella direzione: chi decide? È un gesto che nasce dal desiderio individuale o da una rigida e ingombrante norma sociale?
In psicologia si parla di “regolazione introiettata” per descrivere quelle azioni che compiamo non perché le desideriamo veramente, ma perché ci sentiamo obbligati da norme interiorizzate.
Applicata all’estetica, questa dinamica porta a rituali vissuti con ansia, rigidità o vergogna se non vengono rispettati. Per esempio: sentirsi a disagio ad andare al lavoro senza trucco, o evitare il mare per non aver avuto tempo di depilarsi.
Questi vissuti non sono marginali: contribuiscono al cosiddetto carico mentale, cioè l’insieme delle preoccupazioni, pianificazioni e autocorrezioni continue che molte persone sperimentano nella gestione quotidiana di sé, anche sul piano estetico.
La fatica invisibile del “dover essere a posto”
Sono soprattutto le persone socializzate come donne a dedicare quotidianamente una parte consistente del loro tempo – e ancor di più della loro attenzione – alla gestione dell’aspetto fisico. Non si tratta solo di minuti davanti allo specchio, ma di spazio mentale sottratto ad altre attività potenzialmente più gratificanti.
Il lavoro richiesto per aderire agli ideali di bellezza è spesso invisibile, ma ha effetti concreti in termini di stress, ansia da prestazione e riduzione dell’autoefficacia percepita.
Rinunciare, almeno in parte, a questi rituali può generare un effetto liberatorio, proprio perché riduce questa quota di energia mentale spesa nel controllo e nel perfezionamento dell’immagine. Alcune persone in terapia raccontano con stupore la sensazione di “respirare” di più quando smettono di sottoporsi a certi standard, ad esempio scegliendo abiti comodi, lasciando i capelli naturali o riducendo l’uso di cosmetici.
Effetti psicologici dell’autenticità corporea
L’accettazione del corpo così com’è – nota anche come body acceptance – è associata a un maggior benessere psicologico, autostima e capacità di regolazione emotiva. Non si tratta di «piacersi» a tutti i costi, ma di allentare la pressione interna a modificarsi continuamente per aderire a uno standard esterno.
Le persone con un’immagine corporea positiva tendono a vivere il corpo come un alleato, uno strumento di esperienza e comunicazione, più che come un oggetto da esibire o da controllare e questo orientamento favorisce un maggiore contatto con i propri bisogni e desideri autentici, una componente centrale del benessere psicologico.
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Il ruolo del contesto: non è solo una scelta individuale
È importante ricordare che abbandonare certi rituali non è sempre possibile o sicuro in ogni contesto. Le pressioni estetiche non sono solo interiori, ma anche ambientali: nei contesti professionali o familiari, nelle relazioni affettive, nella sfera sociale. Per questo, parlare di libertà estetica non può prescindere da un’analisi dei vincoli esterni. La libertà corporea è anche una questione politica e collettiva.
Ciò che possiamo fare, nel nostro piccolo, è iniziare a osservare con curiosità e senza giudizio quali rituali estetici ci fanno sentire bene e quali invece ci affaticano. Chiederci: lo sto facendo per me, o per essere vistæ in un certo modo? Cosa succede se smetto? Non è necessario rinunciare a tutto, né prendere posizioni radicali.
A volte, basta introdurre una piccola variazione per scoprire che il mondo continua a girare anche se non seguiamo tutte “le regole!”
Conclusioni
Abbandonare alcuni rituali estetici non è un gesto eroico, né dev’essere necessariamente una rinuncia radicale e definitiva. Ma può essere un esperimento psicologico, una possibilità di ascolto.
Il corpo, quando non è più schiacciato sotto lo sguardo altrui, può tornare a essere uno spazio abitabile. E questa riconnessione – graduale, parziale, imperfetta – è spesso il primo passo verso una maggiore libertà mentale. Non perché smettiamo di curarci, ma perché iniziamo a scegliere come, quando e perché farlo.