Secondo una raccolta dati a cura di Eurostat del 2021, l’Italia (20,8%) è il terzo paese europeo in cui la percentuale di lavoratori freelance è superiore al 20%, preceduta da Grecia (26,8%) e Turchia (21,3%).
Ma è così facile rendere una propria passione o delle competenze trasversali il proprio lavoro e stravolgere il bilanciamento tra vita personale e dimensione lavorativa?
Ne abbiamo parlato con Valeria Fioretta (@gynepraio), content creator, autrice, formatrice e consulente freelance nell’ambito del marketing e della comunicazione.
Ciao Valeria, raccontaci cosa fai nella vita e quali contenuti porti sui social
Sono online dal 2013 con un blog e con una serie di social creati a supporto nel corso del tempo; dal 2017, inoltre, ho una newsletter che negli anni ha preso sempre più peso all'interno della mia comunicazione.
In realtà, non sono una creator full time, non mi dedico, infatti, solo alla produzione di contenuti per me o per altri brand, ma offro anche delle consulenze e percorsi di formazione in marketing e comunicazione per brand o liberi professionisti e tengo dei corsi presso varie istituzioni.
In generale, gli argomenti che mi interessano di più sono le relazioni interpersonali e la qualità della vita, intesa in un senso un po' ampio, quindi che può andare dalla organizzazione della casa e del tempo, fino ad arrivare all'alimentazione, allo sport e al benessere.
Il terzo pilastro, poi, della mia comunicazione è la cultura in senso lato, quindi eventi, film e soprattutto libri.
La tua avventura sul web è cominciata senza aspettative: quando hai capito che poteva diventare un lavoro?
Per molto tempo non è stata una fonte diretta di reddito (io ritengo di essere stata piuttosto lenta, ma ognuno ha il suo cammino e la sua vita), però il beneficio collaterale è che mi ha esposto a tante persone che ci erano riuscite prima di me.
Ho fatto fatica a immaginare come avrei potuto monetizzare o comunque trasformare in un lavoro la mia presenza sul web perché io nasco lavoratrice dipendente, nonostante, in realtà, non fosse una cosa così lontana nella mia famiglia l'idea di essere una libera professionista e un’imprenditrice.
Però, nel mio caso non l'avevo mai veramente sfiorata, avendo iniziato a lavorare in un'epoca di grande incertezza, dato che ho cominciato a percepire uno stipendio nel 2006 e poi nel 2008 c'è stata una crisi economica molto importante; insomma, per me l'attaccamento al posto fisso era molto presente.
Infatti, il tema centrale è questo: la mia generazione non apparteneva ancora a quelli nati con l’idea del poter fare veramente un lavoro online.
Ad esempio, ho frequentato un master in marketing e comunicazione tra il 2009 e il 2010 e non c'erano materie sui social; quindi, anche solo dai nostri CV era un po' assente, e di conseguenza immaginarmi lavoratrice freelance vivendo di comunicazione mi sembrava poco plausibile.
Basti anche pensare che le prime regolamentazioni per quel che riguarda le advertising sono arrivate nel 2014-2015, quindi non era secondo me così intuitivo.
Hai lasciato il lavoro fisso per diventare freelance: puoi raccontarci il tuo percorso di consapevolezza?
In primis mi ha aiutato tanto avere casi di successo attorno a me, che mi avevano magari preceduto di un anno o due.
Questa cosa non è da poco, perché una volta non si avevano così tanti esempi di una persona che aveva intrapreso la libera professione nel mondo della comunicazione, del marketing e della creazione di contenuti con successo.
Poi il percorso con una consulente di carriera è stato molto utile e lo consiglio tantissimo: una parte molto importante di questo percorso sta nel determinare il cosiddetto locus of control, un test che si può somministrare anche in altri percorsi e che serve a capire cos'è che controlla maggiormente le tue decisioni.
Io lo avevo già fatto per una questione attitudinale, anni prima, ed effettivamente a distanza di dieci anni era completamente cambiato.
Ad esempio, anticipando di poco quelle che poi avremmo dovuto imparare tutti a fare con il Covid-19, mi era diventato insopportabile il lavoro in azienda, proprio il luogo, cioè l’alzarmi e dover andare in un posto.
Se mi avessero detto anni prima “Ti piacerebbe stare a casa tutto il giorno?" io gli avrei detto “Ma che cosa sono, una casalinga?”, e poi invece, dopo tanti anni di lavoro in sede, era ormai diventata per me un’esigenza imprescindibile.
Quali erano le tue paure più grandi e quali sono, invece, quegli aspetti che ti hanno convinta a cambiare
Mi sono resa conto che non volevo più che qualcun altro avesse controllo su un numero così importante di ore della giornata del mio anno, della mia settimana, del mio mese; insomma, sulla mia vita.
In questo sicuramente aver avuto un bambino è stato importante perché per i primi tre anni di vita di mio figlio ho lavorato full-time in azienda grazie a una maternità per fortuna breve (non che me l'abbiano imposto), però in generale ho ricordi di una esistenza calcolata al centesimo dove tutta l'economia delle mie giornate si reggeva sul presupposto che mio figlio non si ammalasse.
Il meccanismo alla fine ha retto, devo dire, piuttosto bene, però non era così che io volevo vivere. E questo non perché volessi dedicarmi di più a mio figlio, ma perché volevo vivere un po' meglio.
Quindi sicuramente la mia paura era quella di non riuscire a trovare tanto lavoro, però mi sono immaginata che, se nel giro di un paio d'anni, che era comunque un orizzonte temporale che riuscivo economicamente a gestire con relativa tranquillità, il meccanismo non avesse ingranato, al massimo sarei tornata a lavorare in azienda; insomma, un piano B sapevo di poterlo trovare.
Questo perché effettivamente ce ne sono sempre tanti; magari non belli come quello che mi ero fatta io, però ci sono.
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Il mio approccio al lavoro possiamo dire sia radicalmente cambiato: nei miei primi anni di ufficio ero un soldato, non mi viene in mente un altro modo per definire la mia attitudine; non c'erano i social, non c'erano gli smartphone, e ovviamente la mancanza totale di distrazioni per me significava che io lavoravo tantissimo.
Adesso la sproporzione è totalmente diversa, però mi concedo anche delle cose che una volta non mi concedevo, quindi mi riesco a perdonare più facilmente e secondo me il bilancio alla fine comunque è positivo.
Devo dire che alla fine mi sono scoperta più destrutturata nel mio modo di lavorare, però anche più generativa, quindi va bene anche così.
Specifico anche che in realtà non sono partita completamente da zero, avevo in piedi già alcuni piccoli progetti che mi hanno aiutata ad avere meno dubbi.
Infatti, mi sono licenziata a settembre del 2019, e ho aperto la partita IVA il 1° gennaio 2020, otto settimane prima che iniziasse il lockdown; non una scelta felice col senno di poi, ma in realtà è andata bene anche così visto che non ero più dipendente e potevo gestirmi il mio lavoro da casa.
Puoi dare dei consigli a chi, come te qualche anno fa, vorrebbe cambiare ma non sa se è la scelta giusta?
Allora, secondo me sono tre le cose di cui bisogna proprio accertarsi.
La prima è trovarsi un bravo commercialista che spieghi come stanno le cose; io ho un background di economia aziendale quindi per me onestamente non era arabo, mi ero fatta già un mio piano, ed ero abbastanza consapevole di quanto avrei dovuto guadagnare per riuscire ad avere alla fine dell'anno in maniera tale che non fossi in perdita.
Nonostante ciò, però, per me è stato di aiuto trovare una specialista brava che ha capito il mio bisogno e mi ha aiutato a costruire, che mi ha confermato che il mio modello di business era giusto e che dovevo attenermi a quello.
E questa cosa qui secondo me è fondamentale; purtroppo molte persone non lo fanno perché si mettono in testa che è una roba difficilissima quando non lo è, e quindi poi si perdono e lasciano sul piatto delle opportunità.
La seconda cosa utile è quella di fare un percorso di orientamento professionale.
Ad esempio, io ho una certa tendenza a spaziare tra tante cose e quindi se a me domani viene in mente una roba nuova, la incorporo; oppure voglio smettere di fare delle cose, le dismetto. E io dovevo fare pace con l'idea che questa cosa si può fare, che va bene, che è quasi salutare; insomma, avevo bisogno che qualcuno mi aiutasse a tirar fuori questa frase e a dirla.
Magari chi ha dal punto di vista economico una pressione maggiore alla performance chiaramente non ci si licenzia con leggerezza, però sembra abbastanza intuitivo che la decisione di lasciare il lavoro richieda un background di almeno sei mesi di risparmio; devi prepararti alla nuova vita in maniera oculata.
Il terzo consiglio è quello della rete, ossia di capire se all'interno della propria famiglia o all'interno del proprio network di amici ci sono delle persone che ci possono offrire degli esempi positivi, perché per me è stato vitale.
Segnalo, inoltre, anche se per me non avrebbe mai funzionato, l’idea di richiedere un part-time per cominciare a ritagliarsi un proprio progetto in maniera graduale.
Per me non era percorribile perché io avevo bisogno di sgomberare il campo, liberare energie cerebrali, un’esigenza incompatibile con due ore extra al giorno; però, chissà, magari alcune persone con situazioni personali differenti potrebbero notevolmente avvantaggiarsi da questa scelta.