SLA, uno studio recente apre a nuove possibilità

Arianna Bordi | Editor

Ultimo aggiornamento – 02 Ottobre, 2025

Medico che spiega al paziente i risultati della diagnostica per immagini visualizzati sul tablet. Sullo sfondo, schermi di monitor mostrano scansioni cerebrali dettagliate

Una ricerca innovativa getta luce su come il nostro sistema immunitario possa agire da spartiacque nella SLA, influenzando drasticamente la sopravvivenza dei pazienti.

Scopriamo di più in questo approfondimento.

SLA: la situazione attuale

La Sclerosi Laterale Amiotrofica è un nemico silenzioso, una malattia neurologica rara la cui origine resta un mistero (salvo per il 5-10% dei casi ereditari).

Il quadro è drammatico: ad oggi non esiste una cura in grado di fermare o rallentare questa patologia devastante e l'impatto sulla vita dei pazienti è rapidissimo e fatale; in media, la metà di coloro che ricevono la diagnosi in poco più di un anno, quasi sempre a causa di un'insufficienza respiratoria.

Emerge, però, da uno studio di quest’anno che la SLA potrebbe non essere un evento isolato, ma il risultato di un meccanismo autoimmune.

In altre parole, il corpo potrebbe rivoltarsi contro se stesso: è possibile che il sistema immunitario, anziché proteggere, stia innescando o accelerando il danno neurologico tipico della SLA.

Una malattia autoimmune è una condizione patologica in cui il sistema immunitario, che ha il compito di difendere l'organismo da agenti esterni (come batteri o virus), perde la capacità di distinguere il "sé" dal "non-sé".


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In sostanza, il sistema immunitario avvia erroneamente una risposta immunitaria (un attacco) non contro una minaccia esterna, ma contro i propri tessuti, organi e cellule sane, trattandoli come se fossero invasori.

I dettagli del nuovo studio

Analizzando la risposta dei linfociti T nei malati di SLA, gli scienziati hanno identificato due gruppi distinti, con prognosi molto diverse:

  • il gruppo "reattivo" (sopravvivenza più breve): i loro linfociti T CD4+ infiammatori (i "guastatori") si scatenavano rapidamente al cospetto della proteina C9orf72, rilasciando mediatori infiammatori con un effetto probabilmente dannoso;
  • il gruppo "protettivo" (sopravvivenza più lunga): anche se presentavano cellule infiammatorie, avevano un numero significativamente maggiore di linfociti T CD4+ anti-infiammatori (i "pacieri"). Una risposta protettiva che è risultata più robusta proprio nei pazienti con i tempi di vita più lunghi, una correlazione inattesa che suggerisce un meccanismo per ridurre i danni autoimmuni e rallentare il decorso della malattia.

“Questa risposta protettiva è più forte proprio nei pazienti che vivono più a lungo”, conferma Emil Johansson, uno degli scienziati coinvolti.

La domanda, però, sorge spontanea: si potrà usare questa scoperta come test predittivo già nelle fasi iniziali della diagnosi?

Il ricercatore Alessandro Sette lo definisce "una possibilità interessante"; infatti, nonostante il test attuale per rilevare queste cellule T sia complesso, una sua semplificazione potrebbe presto supportare la diagnosi e offrire persino indicazioni sul futuro andamento della malattia.

Nuove prospettive terapeutiche

L'obiettivo primario è ora trasformare questa intuizione in una cura concreta. Tanner Michaelis, primo autore dello studio, è ottimista: "Ora che conosciamo il bersaglio di queste cellule immunitarie, possiamo immaginare trattamenti più efficaci per la SLA".

Si apre, quindi, la strada a terapie mirate a potenziare le cellule T protettive e a frenare quelle infiammatorie dannose.

Sette ipotizza approcci di immunoterapia, come isolare o ingegnerizzare le cellule T anti-infiammatorie e reinfonderle nel paziente. Avverte, però, che, sebbene promettenti, i test clinici richiederanno "diversi anni" prima di dare risultati.

Questo approccio basato sull'immunità non riguarda solo la SLA: Sette evidenzia che il ruolo del sistema immunitario sta diventando sempre più cruciale in un ampio spettro di malattie neurodegenerative, come il Parkinson, la malattia di Huntington e l'Alzheimer; il coinvolgimento delle cellule immunitarie non è più un'anomalia, ma “sta emergendo come una regola, più che come un’eccezione”.

A riprova, i dati mostrano che le persone trattate con farmaci anti-TNF (usati per altre infiammazioni) hanno un'incidenza significativamente più bassa di Parkinson, suggerendo che "spegnere" l'infiammazione possa prevenirne o rallentarne l'insorgenza.

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Nonostante la portata della scoperta, dunque, Sette mantiene un tono prudente riguardo ai tempi: infatti, la prognosi media della SLA è oggi di 14-18 mesi dalla diagnosi e, sfortunatamente, nel prossimo futuro l'impatto clinico su qualità e durata della vita dei pazienti SLA sarà probabilmente nullo, a causa dei lunghi tempi necessari per lo sviluppo e il collaudo degli interventi.

In generale, però, l'immunomodulazione è ormai considerata un approccio terapeutico inedito e fondamentale nella lotta contro la SLA.

Fonti:

Nature - Autoimmune response to C9orf72 protein in amyotrophic lateral sclerosis

Arianna Bordi | Editor
Scritto da Arianna Bordi | Editor

Dopo la laurea in Letteratura e Lingue straniere, durante il mio percorso di laurea magistrale mi sono specializzata in Editoria e Comunicazione visiva e digitale. Ho frequentato corsi relativi al giornalismo, alla traduzione, alla scrittura per il web, al copywriting e all'editing di testi.

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