Uno studio danese rivela che chi sperimenta un dolore persistente dopo la perdita di una persona cara ha una probabilità significativamente più alta di morire nel decennio successivo.
I ricercatori puntano l’attenzione su un possibile legame tra sofferenza psicologica cronica, malattie fisiche e aspettativa di vita. Osserviamo i risultati dello studio e il loro significato.
Quando il dolore non passa: il lutto che logora il corpo
Il lutto è una delle esperienze più destabilizzanti dell’esistenza. Tuttavia, per alcune persone, il dolore non riesce a risolversi attraverso il tempo: resta, si cronicizza e può compromettere in modo significativo la salute fisica e mentale.
Una nuova ricerca danese pubblicata a fine luglio 2025 mette in luce un dato allarmante: le persone che sperimentano livelli elevati e persistenti di dolore per una perdita hanno un rischio di morte più alto dell’88% nei dieci anni successivi rispetto a chi elabora il lutto in modo meno traumatico.
Lo studio: oltre 1700 persone monitorate per dieci anni
Il lavoro è stato condotto da Mette Kjærgaard Nielsen e colleghi dell’Università di Aarhus, in Danimarca. Il team ha attinto da un ampio registro nazionale per individuare persone affette da patologie terminali, e ha poi coinvolto più di 1.700 loro familiari o partner (con un’età media di 62 anni) per seguirli prima e dopo la perdita.
I partecipanti sono stati sottoposti a questionari in tre momenti distinti: prima del decesso del proprio caro, a sei mesi e a tre anni dalla perdita. Le domande vertevano su vari aspetti del vissuto emotivo: evitamento dei ricordi, confusione sul proprio ruolo, senso di vuoto, difficoltà di adattamento.
Al termine dello studio, i ricercatori hanno incrociato questi dati con le cartelle cliniche e i registri di mortalità, dieci anni dopo la perdita.
Vediamo i risultati.
I numeri: rischio di morte aumentato per chi soffre di più
I risultati sembrano essere netti:
- 107 persone hanno mostrato livelli costantemente alti di dolore nel tempo;
- 670 persone hanno invece riportato un dolore costantemente basso;
- gli altri soggetti hanno avuto un dolore in calo progressivo o un dolore ritardato, emerso solo dopo qualche tempo.
Nel gruppo ad alto dolore, il tasso di mortalità a 10 anni risultava superiore dell’88% rispetto a quello del gruppo a basso dolore. Un dato che, secondo gli autori, deve indurre alla prevenzione clinica attiva nei soggetti più fragili.
Perché il dolore prolungato può uccidere?
Secondo Andreas Maercker, psicotraumatologo dell’Università di Zurigo (non coinvolto nello studio), “c’è un detto che dice che il lutto spezza il cuore – ed è più vicino alla verità di quanto si creda”. Il dolore cronico legato al lutto può infatti generare:
- aumento della pressione arteriosa;
- disfunzioni del sistema immunitario;
- infiammazione sistemica;
- maggior rischio cardiovascolare;
- cambiamenti nello stile di vita, come sedentarietà, malnutrizione, insonnia, abbandono delle cure.
Non solo: i soggetti che già al momento della perdita soffrivano di una condizione medica preesistente erano sovra-rappresentati nel gruppo ad alto dolore, suggerendo un circolo vizioso tra cattiva salute fisica e vulnerabilità psicologica.
Il Disturbo da lutto prolungato: quando chiedere aiuto
Il Disturbo da lutto prolungato è oggi riconosciuto anche nei principali manuali diagnostici internazionali (DSM-5-TR e ICD-11). Si manifesta quando, anche a distanza di mesi o anni dalla perdita, la persona continua a vivere in uno stato di dolore acuto, con sintomi come:
- pensieri intrusivi sulla persona scomparsa;
- ruminazione sul senso della perdita;
- sensazione di identità compromessa;
- insonnia, ansia, depressione;
- difficoltà relazionali e isolamento.
Secondo l’OMS, colpisce circa 1 persona su 10 tra chi subisce un lutto. Lo studio danese contribuisce a confermare che si tratta di un problema non solo psicologico, ma potenzialmente letale, se trascurato.
Intervenire prima: la prevenzione è possibile
I ricercatori invitano i medici, i familiari e i servizi sanitari a non sottovalutare il lutto che non si risolve. Alcuni segnali di rischio che meritano attenzione:
- dolore che non diminuisce dopo 6-12 mesi
- Assenza di reti sociali o familiari
- precedenti episodi depressivi o ansiosi
- comorbilità fisiche importanti
- età avanzata o forte dipendenza emotiva dalla persona scomparsa
Intervenire precocemente, con terapie psicologiche mirate o semplicemente con un follow-up medico empatico e costante, può fare la differenza nella salute e nella sopravvivenza della persona in lutto.
Il lutto è un passaggio universale, ma non per tutti si trasforma in rielaborazione e ricostruzione. In alcuni casi, il dolore resta bloccato e diventa esso stesso una minaccia per la vita. Lo studio danese offre una base scientifica solida per riconoscere il lutto prolungato come un fattore di rischio clinico a tutti gli effetti. E ci ricorda che la cura della mente, anche nel silenzio di una perdita può rendersi cura per il corpo.